Seleziona una pagina

Il 58

Tempo di lettura: 6 minuti

Foto di Manki Kim via Unsplash

Ieri mattina ho venduto la mia auto, non mi servirà più.

L’ho comprata due anni fa, un mese dopo aver preso la patente. Un vero affare: chilometri zero, immatricolata e disponibile in pronta consegna, carrozzeria, interni e motore in ottimo stato. Non dimenticherò mai la prima sera che l’ho parcheggiata sotto casa. Mi cullavo nell’idea di ritrovarla lì il mattino dopo, pronta a seguirmi ovunque, senza chiedere nulla in cambio. Se escludiamo, le ventiquattro rate del finanziamento – la nonna mi ha fatto da garante – la benzina, l’assicurazione, la tassa di possesso, il tagliando e la revisione – la prima, quattro anni dopo l’acquisto, le successive ogni due anni. Speravo che mio fratello accettasse di tenerla, ma non ha voluto sentire ragioni.

“Non guiderei mai un’auto di seconda mano e poi sorellina è… bianca. Mica faccio il tassista io.”

Alberto è un rosicone. A trentacinque anni gira ancora in scooter e la nonna non gli farebbe mai da garante. 

Mamma e papà non approvano la mia decisione di trasferirmi all’estero. Avrò pure ottenuto una borsa di studio in un’università prestigiosa con il rimborso del 50% delle spese d’istruzione (a patto che la media dei miei voti si mantenga sufficientemente alta); mi sarò anche organizzata per pagare l’affitto e il resto delle spese (ho trovato lavoro come segretaria part-time in una piccola società di traduzioni e mia nonna, santa donna, si è offerta di darmi una mano per l’affitto). Tutto inutile. Sto facendo una scelta totalmente sbagliata. Me ne pentirò. Non so a cosa sto andando incontro.

Mia madre piange ogni volta che mi incrocia in giro per casa. Ieri l’ho vista singhiozzare mentre stirava il mio pigiama. Continua a cercare spiegazioni plausibili per dare un senso al mio folle gesto facendo indagini su internet, guardando trasmissioni sensazionalistiche su Canale 5 e leggendo Riza Psicosomatica.

“La maestra della scuola elementare ha infilato nelle vostre teste il germe dell’indipendenza troppo presto. Non eravate ancora pronti, avevate nove anni! L’ indipendenza come resistenza all’abbandono ne parlava lo psicanalista, quello famoso, l’altro giorno dalla D’Urso. Pure Mattia il figlio di De Carlo che era in classe con te ora vive a Tokyo. I genitori non lo vedono da due anni. E Amanda Rebotti? Amanda a sedici anni se ne è andata a Londra e chi l’ha vista più…”

Mio padre l’ascolta in silenzio scuotendo la testa. Mi chiede di continuo se penso davvero di farcela senza mai guardarmi negli occhi. Li capisco. Sono i miei genitori. Devono preoccuparsi per me. Che senso avrebbe, altrimenti, la loro esistenza? Mio fratello Alberto, no. Ha cercato di ostacolarmi in ogni modo ricordando a mia madre episodi di cronaca nera con protagoniste donne smarrite in paesi stranieri e mai più ritrovate. Ragazze di buona famiglia andate all’estero per studiare, vittime della droga, della violenza del branco, di party estremi, sette, movimenti indipendentisti, sospette conversioni all’Islam.

Non ha voluto neanche accompagnarmi alla concessionaria auto per dire addio alla mia insostituibile compagna di viaggi, aperitivi e sabato sera in centro.

“È inutile Aurora. Non chiedermelo più. Quando ritorni, perché tra un mese, garantito, sei di nuovo qui, come cavolo fai a comprarti un’altra macchina? La nonna col cazzo che ti aiuta di nuovo. E il mio scooter te lo scordi. Non ce la farai mai! Non riesci neanche a salire su un autobus con tutte le ansie e le angosce che hai.”

“Torno a casa con il  58! Vedrai, vedrai la tua sorellina, stronzo.”

Sul 58, mentre cercavo di avvicinarmi alle porte centrali per combattere la claustrofobia – Alberto sei proprio uno stronzo – ho rischiato di inciampare in una busta rossa con dei manici neri lunghissimi che penzolava dalle mani di una signora. La tipica shopper lucida da negozio di lusso con il logo abbastanza visibile da sedurti senza ostentazione.

Visto il mio indiscutibile stato d’ansia – Alberto sei un super stronzo – ero già pronta a scattare e a insultare la signora quando ho incrociato i suoi occhiali tondi, color tartaruga. In un lampo ho sentito risuonare nella testa la disperazione di mia madre. La disperazione scandita dalle parole che sentivo ogni santissima volta che veniva a riprendermi a scuola:

“Un’intera classe abbandonata in quinta elementare, in un momento cruciale del loro percorso di crescita non dico didattica, ma umana! Che vergogna questi insegnanti. Che vergogna.”

“Maestra Luciana ma… è lei?” Ho chiesto alla signora dagli occhiali color tartaruga.

“Bellingheri! Aurora tesoro mio come sei magra. Ma non chiamarmi maestra. Luciana, chiamami Luciana, sono passati quasi vent’anni.”

“Non esageriamo maestra…mae… Luciana. Non sono ancora passati vent’anni. Lo sa maestra ah no, scusi mae, ah no Luciana, ehm … maestra Luciana lo sa che è sempre uguale? Non è cambiata per niente.”

“Scusami tesoro mio, scusami. Devo scendere. La prossima è la mia fermata. Stasera ho un impegno. Permesso, scusi devo scendere! Dai un bacio a mamma e papà e fai la brava. Tua mamma si preoccupava così tanto. Vienimi a trovare, ciao Bellingheri. Ciao.”

Nello scendere dall’autobus la busta rossa che trascinava dietro di sé come un cagnolino al guinzaglio è rimasta incastrata fra le porte. La maestra ha urlato all’autista di riaprirle e ha tirato la busta verso di sé sbuffando e corrugando la fronte. Stavo per scendere ad aiutarla ma Lei ha mosso con un rapido scatto il polso sinistro, sollevando l’indice. Se l’indice della maestra Luciana dice “No” è no. Lo ricordo molto bene. Ho continuato a osservarla dalle porte trasparenti dell’autobus finché la sua sagoma non è svanita tra i palazzi un istante prima dell’occhieggiante busta penzoloni.

L a maestra Luciana ci aveva abbandonati senza alcuna spiegazione all’inizio della quinta elementare. Era ancora giovane e avrebbe potuto insegnare per un’altra decina d’anni. La preside aveva mantenuto un assoluto riserbo nonostante gli insulti e le proteste dei genitori della VF guidati da Patrizia Ruffo, l’onnipresente rappresentante di classe.

Una mattina di ottobre, la scuola era iniziata da circa un mese, la preside era entrata classe e ci aveva comunicato che la nostra maestra non si era sentita bene ma sarebbe rientrata il prima possibile, un mese di assenza al massimo.

“Non preoccupatevi bambini. La maestra Luciana torna presto, non vi lascia di certo all’ultimo anno, prima dell’esame di quinta.”

I miei compagni ed io avevamo smesso di chiedere quando sarebbe tornata dopo che il supplente, il maestro Emilio, ci aveva portato due giorni in gita in montagna. Era stata un’esperienza bellissima. Indimenticabile. Le cascate, il falò, la notte in tenda, la caduta dagli scalini del treno regionale di Arturo Pennacchietti. Arturo aveva perso gli occhiali mentre pescavamo nel lago e senza non vedeva praticamente nulla. Gli avevamo detto di farsi aiutare dal maestro a scendere dal treno, i gradini sono alti e distanti dalla banchina, ma lui si era rifiutato. Poco prima della stazione si era catapultato davanti alla porta per essere il primo a scendere.

“Guido io la fila. Non ho più cinque anni. Non mi serve una mano per scendere due gradini.”

La caduta si era risolta con un ginocchio sbucciato, un bernoccolo e la risata dell’istante in cui ti accorgi che un momento bruttissimo sarà un ricordo bellissimo. Il maestro Emilio era rimasto con noi per tutto l’anno scolastico conducendoci con affetto e ottimi risultati in prima media, non dallo psicanalista, con sommo stupore e sollievo della mia mamma.

Neanche per un istante ho provato rabbia o delusione verso la maestra Luciana. Aveva avuto di sicuro un valido motivo per lasciarci. La maestra Luciana ci voleva bene.

Casa nostra, 20 settembre 20xx, seduta in cucina

Caro Enrico,
stasera vado a teatro. Carla mi ha convinto e ci siamo abbonate alla nuova stagione del Teatro Cometa. Non te l’ho detto per non farti dispiacere ma tre mesi fa anche il Suo Alfredo è venuto a mancare. Un tumore al fegato, una fine veloce ma terribile. Mi fa tanta paura Enrico uscire la sera senza di te. Quando hai deciso lanciarti nel vuoto dal parapetto di via Manzoni non ti è venuto in mente che io avrei avuto paura? Non dico avvisare ma almeno lasciare una lettera, una frase di addio sulla scrivania in ufficio, una traccia di rossetto sulla tua camicia preferita, un assegno scoperto in banca… un motivo Enrico. Una spiegazione. Sai, oggi rientrando a casa ho comprato un vestito nuovo. Non l’ho neanche provato. È in pura seta, longuette, stampato a fiori. La commessa l’ha avvolto in un foglio di carta bianco e lo ha infilato in una busta rossa di carta lucida con dei manici in cordino nero lunghissimi. Stai tranquillo, gelosone, non lo indosso, lo regalo a Carla.

Buon anniversario Enrico.

Luciana

P.S.

Tornando a casa sul 58 ho incontrato Aurora Bellingheri, la ricordi? La bambina di VF che, quando ho lasciato la scuola, ha telefonato a casa nostra per mesi. Abbassava la cornetta senza dire una parola. Chissà se mi ha perdonato. A te Enrico io non ti perdonerò mai.