Zitta
Pubblicato da Historica edizioni nell’antologia Racconti Liberi Vol. 3

Foto di Serenity Mitchell via Unsplash
Marco è una persona silenziosa ma non nasconde alcun segreto. Semplicemente, ha poco o nulla da dire. Come un pipistrello sa muoversi al buio, raggiungere la preda senza farsi notare emettendo suoni impercettibili. È un topo con grosse ali dallo sguardo vispo ma vacuo, fragile solo in apparenza. Un chirottero, portatore sano di terribili patologie, Ebola, Hendra, SARS e soprattutto rabbia. Durante il giorno, mentre persone, case, città, sono sveglie, lui dorme profondamente con la porta chiusa e le persiane serrate. In camera non deve entrare neanche un filo di luce. Sua figlia, appena rientra da scuola, si affretta a chiudere la porta del disimpegno che separa il corridoio dalla camera da letto. Cammina in punta di piedi. Evita di invitare le amiche per studiare o fare merenda insieme. Meglio non svegliare il papà che dorme.
Di notte Marco, mentre tutti riposano, deve svegliarsi e andare a lavorare. È il direttore di una catena di supermercati aperta ventiquattro ore su ventiquattro. I suoi colleghi lo stimano, lo considerano una guida. Risolve i problemi senza fare troppo rumore e senza chiedere nulla in cambio.
Lui e sua moglie Paola si sono conosciuti quindici anni fa, la sera di Ferragosto, in un pub a Trastevere. Paola si era scoperta incantata a osservare dal tavolo di fronte un lungo segno viola sul bicipite abbronzato e pompato di Marco. Qualcosa di simile a una lisca di pesce con spine acuminate e venature biancastre. Andrea, il migliore amico di Marco, spingendo il gomito sulla sua spalla gli aveva detto:
“Zio la Bionda te guarda”.
Marco aveva raccontato a Paola che la cicatrice era il segno di errori fatti in gioventù, quando era un cattivo ragazzo. Non si erano più lasciati.
La prima volta che Marco aveva piazzato un ceffone sul viso di sua moglie era stato per lo stipendio della babysitter. Una spesa inutile, incomprensibile. Era stata Paola, d’altra parte, a voler riprendere il lavoro. Era colpa sua se dovevano dare dei soldi a una totale estranea invece di essere lei, sua madre, a occuparsi della figlia. Tutta colpa sua. Continuava a ripeterselo mentre si passava il ghiaccio sulla guancia livida. Non doveva tornare a insegnare, doveva restare a casa con Giorgia, essere felice di poter fare la mamma. Solo la mamma. Marco aveva ragione. Ma suo padre aveva insistito tanto:
“Paola, perché non torni a lavorare? Giorgia ormai sta crescendo. Hai studiato tanto, la laurea, l’abilitazione… Marco è un bravo ragazzo con il tempo capirà.”
Marco non aveva capito. Neanche con il tempo.
Anche la volta in cui Marco l’aveva rincorsa lungo il corridoio di casa prendendola a calci era stata colpa sua, d’altra parte. Avrebbe dovuto chiedere a Marco la sua opinione prima di lasciar andare Giorgia a casa di Margherita.
Lo sapeva che Marco non era d’accordo.
“È una bambina superficiale e attaccata ai soldi come i suoi genitori. Pur di liberarti di mia figlia per il tuo lavoro la molleresti ovunque. Che delusione sei Paola.”
“Hai ragione, Marco. Avrei dovuto dirtelo. Mi dispiace.”
Pochi mesi dopo il matrimonio, durante un pranzo in famiglia, la suocera di Paola aveva raccontato, che Marco era nato con un grosso angioma sul braccio. A dodici anni l’angioma aveva cominciato a ingrandirsi e a procurargli un dolore costante e pungente. Avevano dovuto asportarlo d’urgenza. L’angioma aveva raggiunto l’osso e poteva nascondere qualcosa di maligno. L’intervento era stato fatto da un vero macellaio come testimoniava l’orribile cicatrice che si intravedeva dalle maniche arrotolate sopra i gomiti della camicia del figlio. La suocera sperava che non fosse qualcosa di ereditario e che la bimba in arrivo non si trovasse mai a subire un orrore simile. Mentre la suocera parlava Paola aveva sentito un calore fortissimo avvolgerle il viso e un senso di nausea salire dallo stomaco. Aveva rivisto la sé stessa di allora incontrare Marco a Trastevere e restare rapita dalla cicatrice sul braccio abbronzato del marito. Lei gli aveva creduto.
Guardando il pancione avvolto nel jeans morbido, con la fascia elastica, si era sentita pesante come un cuscino imbottito di piombo. È colpa mia. Tutta colpa mia.
A tavola, per tutta la durata del pranzo, non aveva detto una parola.
Il giorno della nascita di Giorgia, non appena l’infermiera era entrata nella stanza portando la bimba nella culla trasparente, i suoceri di Paola avevano verificato con estrema cura che sulla pelle della piccola non ci fosse alcun tipo di macchia, segno, difetto. Anche i genitori di Paola avevano fatto lo stesso.
“È perfetta, Paola. Perfetta”, le aveva detto la mamma con le lacrime agli occhi.
Otto anni dopo nessuno si era fermato a osservare con la stessa cura il corpo di Paola disteso, senza vita, davanti alla porta di casa.
Povero Marco. Una vera tragedia.
Il viso di Paola riverso sul prato, il grembiule macchiato di sugo.
Nel forno una crostata di fragole.

Foto di Esther Wilhelmsson via Unsplash